Rinvio pregiudiziale - Spazio di libertà, sicurezza e giustizia - Direttiva 2011/95/UE - Condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato - Motivi di persecuzione - “Appartenenza a un determinato gruppo sociale” - Atti di persecuzione - Soggetti non statuali - Collegamento tra i motivi e gli atti di persecuzione, o tra i motivi di persecuzione e la mancanza di protezione contro tali atti - Nozione di danno grave rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

La Grande Sezione della Corte di Giustizia si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale amministrativo di Sofia volto ad accertare se – al fine di valutare se una donna, vittima di violenza domestica e di minaccia di delitto d’onore, appartenga ad un determinato gruppo sociale – si debbano prendere in considerazione la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) e la Convenzione di Istanbul (sebbene la Repubblica di Bulgaria non sia parte di quest’ultima convenzione) e se – nel caso in cui gli atti di violenza siano commessi da soggetti non statuali – il collegamento richiesto dall’art. 9, paragrafo 3, della Direttiva 2011/95 presupponga che i soggetti non statuali riconoscano gli atti di persecuzione da essi commessi come determinati dal genere biologico o sociale delle vittime di tali atti. Il giudice del rinvio, infine, chiedeva di accertare se una minaccia di delitto d’onore costituisca un rischio effettivo di danno grave, rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

In primo luogo, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che gli Stati membri sono vincolati dagli obblighi previsti dagli strumenti di diritto internazionale di cui sono parti, tra i quali, in particolare, quelli che vietano le discriminazioni, come la CEDAW e che la Convenzione di Istanbul (che vincola l’Unione dal 1º ottobre 2023), nei limiti in cui presenta un collegamento con l’asilo e il non-refoulement, fa anch’essa parte dei trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE e della stessa occorre tenere conto nell’interpretazione della Direttiva 2011/95 e, in particolare dell’art 10, par. 1, anche se taluni Stati membri, tra cui la Bulgaria, non hanno ratificato tale convenzione.

In merito alle questioni relative all’interpretazione dell’art.10, paragrafo 1, lettera d), della Direttiva 2011/95, la Corte ha affermato che, sulla base delle condizioni esistenti nel paese d’origine (relative alla posizione delle donne davanti alla legge, alla frequenza di pratiche tradizionali dannose, all’incidenza e alle forme di violenza segnalate contro le donne ed alla protezione disponibile per loro), possono essere considerate appartenenti a “un determinato gruppo sociale”, come “motivo di persecuzione” che può condurre al riconoscimento dello status di rifugiato, tanto le donne di tale paese nel loro insieme quanto gruppi più ristretti di donne che condividano una caratteristica comune supplementare (ad esempio: la condivisione di una situazione familiare particolare, di una fede o di un’altra caratteristica che sia così fondamentale per l’identità che tali donne non dovrebbero essere costrette a rinunciarvi; l’essersi sottratte ad un matrimonio forzato o, nel caso di donne sposate, l’aver abbandonato il tetto coniugale; l’essere esposte, a causa del loro sesso, a violenze fisiche o mentali, incluse violenze sessuali e violenze domestiche).

È di particolare rilievo quanto affermato dalla Corte al § 58 dove, richiamando le conclusioni dell’Avvocato generale, si legge che “le donne che rifiutano un matrimonio forzato, allorquando una tale prassi può essere considerata una norma sociale all’interno della loro società, o trasgrediscono una siffatta norma ponendo fine a tale matrimonio, possono essere considerate appartenenti a un gruppo sociale con un’identità distinta nel loro paese d’origine, se, a causa di tali comportamenti, esse sono stigmatizzate ed esposte alla riprovazione della società circostante che porta alla loro esclusione sociale o ad atti di violenza”.

In merito alla questione relativa al collegamento tra gli atti di persecuzione ed i fattori di inclusione, la Corte di Giustizia ha affermato che, in presenza di un atto di persecuzione perpetrato da un soggetto non statuale, la condizione stabilita all’articolo 9, paragrafo 3, Della direttiva 2011/95 è soddisfatta qualora tale atto si basi su uno dei motivi di persecuzione menzionati all’articolo 10, paragrafo 1, di detta Direttiva, quand’anche la mancanza di protezione non si fondi su tali motivi.

Sull’ultima questione posta dal tribunale bulgaro, la Corte di Giustizia, dopo aver ricordato che sulla nozione di “danno grave” ci si può interrogare solo qualora venga esclusa la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ha statuito che la nozione di “danno grave” ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può quindi condurre al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 2, lettera g), di tale Direttiva.